Dopo l’articolo su wired.it, in agenzia mi hanno sommerso di domande su come funzioni la tecnologia ultrasonica. Il che mi ha stimolato qualche riflessione extra-pubblicitaria.
Da un punto di vista filosofico ed etico, l’utilizzo del corpo come veicolo di suoni è un argomento molto interessante da dibattere: è il superamento del corpo come limite, ma anche la sua violazione.
Questa violazione così palese è l’occasione per domandarci quante violazioni il corpo subisce ogni giorno da stimoli apparentemente meno invasivi, ma terribilmente più invasivi nel loro essere dissimulati: ad esempio le innumerevoli emissioni (cellulari, wifi, radio, CO2, PM10, etc) a cui siamo sottoposti quotidianamente 24 ore su 24.
E’ l’occasione per domandarci se sia così inossidabile la concezione comune del corpo come barriera tra l’interno e l’esterno di noi stessi; e di conseguenza la concezione di individuazione, di identità: che da identità statica e tridimensionale potrebbe diventare identità “osmotica” e meta-dimensionale, frutto di tutto quello che assorbiamo dall’ambiente circostante, sia in termini fisici sia in termini semantici.
Mi fermo qui: il mio blog di filosofia è un altro.
Questo è il mio blog di pubblicità tecnologica. Per cui mi limito a domandare: quando entrate in un negozio o in un supermercato, preferite che a essere violato sia il vostro apparato osseo usato come cassa di risonanza per il tempo brevissimo in cui passate davanti a un certo punto preciso, o i vostri timpani martellati con l’ultimo jingle ripetuto a loop per tutto il tempo in cui fate la spesa?